CONSIGLIO D’EUROPA
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
QUARTA SEZIONE
GRANDE ORIENTE D’ITALIA DI PALAZZO GIUSTINIANI c. ITALIA

(Ricorso n. 35972/97)

SENTENZA
STRASBURGO
2 agosto 2001
La presente sentenza diverrà definitiva alle condizioni stabilite dall’art. 44 comma 2 della Convenzione. Essa potrà subire dei ritocchi di forma.
Nel caso Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo (quarta sezione), sedendo in una Camera composta da:
G. RESS, presidente,
A. PASTOR RIDRUEJO,
B. CONFORTI,
L. CAFLISCH,
J. MAKARCZYK,
V. BUTKEVYCH,
M. PELLONPÄÄ, giudici
e da V. BERGER, cancelliere della sezione,dopo aver deliberato in camera di consiglio il 10 luglio 2001, pronuncia la sentenza che segue, adottata nella medesima data:
PROCEDURA
1. Il presente caso trae origine da un ricorso (n. 35972/97) diretto contro la Repubblica italiana con il quale un’associazione di diritto italiano, il Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani (“la ricorrente”), aveva adìto la Commissione europea dei diritti dell’uomo (“la Commissione”) il 31 gennaio 1997 in forza dell’abrogato art. 25 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (“la Convenzione”).
2. La ricorrente è rappresentata da Anton Giulio Lana, avvocato del foro di Roma. Il governo italiano (“il Governo”) è rappresentato dal suo agente, U. Leanza, e dal suo coagente, V. Esposito.
3. La ricorrente lamenta la violazione degli artt. 11, 8, 9, 10, 14 e 13 della Convenzione a causa dell’adozione, da parte della Regione Marche, di una legge che obbliga i candidati a determinate cariche pubbliche di dichiarare la propria non
appartenenza alla Massoneria.
4. Il ricorso è stato trasmesso alla Corte il 1 novembre 1998, data di entrata in vigore del Protocollo n. 11 alla Convenzione (art. 5 comma 2 del Protocollo n. 11).
5. Il ricorso è stato assegnato alla quarta sezione della Corte (art. 52 comma 1 del Regolamento). In seno alla detta sezione, la Camera incaricata di esaminare il caso (art. 27 comma 1 della Convenzione) è stata costituita conformemente all’art. 26 comma 1 del Regolamento.
6. Con decisione del 21 ottobre 1999, la Camera ha dichiarato il ricorso parzialmente ricevibile.
7. Tanto la ricorrente che il Governo hanno depositato delle osservazioni complementari sul merito del caso (art. 59 comma 1 del Regolamento). Tuttavia, ilpresidente della Camera ha deciso di non accettare quelle del Governo, essendo state esse depositate oltre il termine all’uopo prefissato senza che venisse sollecitata alcuna proroga prima dello spirare di detto termine (art. 38 comma 1 del Regolamento).
FATTO
I. LE CIRCOSTANZE DEL CASO
8. La ricorrente è un’associazione italiana di obbedienza massonica che raggruppa più logge. Essa esiste dal 1805 ed è affiliata alla Massoneria Universale.
In diritto italiano, la ricorrente riveste lo status di associazione di diritto privato non riconosciuta a norma dell’art. 36 del codice civile. Essa, pertanto, non dispone della personalità giuridica. I relativi statuti sono stati depositati presso un notaio e sono accessibili da chiunque. Con la legge regionale n. 34 del 5 agosto 1996 (“la legge del 1996”), pubblicata nel Bollettino ufficiale del 14 agosto 1996, la Regione Marche (“la Regione”) ha adottato le regole da seguire per le nomine e le designazioni alle cariche pubbliche di spettanza della Regione medesima.
Davanti alla Corte, la ricorrente si lamenta del pregiudizio subìto in ragione del testo dell’art. 5 della predetta legge regionale (“l’art. 5 della legge del 1996”).
All’art. 1, la legge precisa che tali regole si applicano a tutte le nomine e le designazioni fatte da organi statutari della Regione in applicazione di leggi, regolamenti, statuti e convenzioni, nell’ambito di “organi di enti e soggetti pubblici e privati diversi dalla Regione”. Questa disposizione indica che le suddette regole si applicano egualmente alle nomine relative a quindici organismi di carattere regionale (indicati nell’annesso A della stessa legge) nonchè, in certi casi, ad altri organismi aventi carattere regionale per i quali la nomina o la designazione è di competenza del Consiglio regionale (annesso B della legge del 1996).
L’art. 5 della legge fissa le modalità e le condizioni di presentazione delle candidature alle nomine ed alle designazioni. Esso prevede, fra l’altro, che i candidati non devono appartenere alla Massoneria. Tale articolo è formulato come segue:
Articolo 5
Candidature
“1. Fino a trenta giorni prima del termine previsto per ciascuna nomina o designazione possono essere proposte rispettivamente, al Presidente del Consiglio regionale e al Presidente della Giunta regionale, candidature da parte dei consiglieri e dei gruppi consiliari e da parte di ordini professionali, enti e associazioni operanti nei settori interessati.
2. La candidatura deve essere corredata dall’esposizione dei motivi che la giustificano, nonché da una relazione contenente i seguenti elementi:
a) comune di residenza, data e luogo di nascita;
b) titolo di studio;
c) curriculum professionale, occupazione abituale, elenco delle cariche pubbliche e in società a partecipazione pubblica, nonché in società private iscritte in pubblici registri, ricoperte attualmente o precedentemente;
d) inesistenza di conflitti di interesse con l’incarico che si propone;
e) dichiarazione di non appartenenza a logge massoniche;
f) dichiarazione, sottoscritta dal candidato, di disponibilità all’accettazione dell’incarico e di assenza di motivi ostativi derivanti da soggettiva posizione penale, civile o amministrativa.
3. La dichiarazione di accettazione di candidatura deve essere autenticata e contenere altresì la dichiarazione del candidato circa la sussistenza di eventuali cause di incompatibilità, di inesistenza di cause di ineleggibilità e di non candidabilità anche con riferimento a quanto previsto dall’art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55 e successive modificazioni.”
9. Nel giugno 1999, la prima Commissione del Consiglio regionale delle Marche ha respinto un progetto di legge regionale (n. 352/98) recante modificazioni ed integrazioni alla legge n. 34 del 1996. Tale progetto mirava, tra l’altro, ad abolire la dichiarazione prevista dall’art. 5 della legge del 1996.
II. IL DIRITTO INTERNO PERTINENTE
10. L’art. 18 della Costituzione è così formulato:
“I cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per dei fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale.
Sono vietate le associazioni segrete nonchè quelle che perseguono, anche in modo indiretto, un fine politico mediante un’organizzazione di carattere militare.”
La legge n. 17 del 25 gennaio 1982 reca le disposizioni di attuazione dell’art. 18 della Costituzione in materia di associazioni segrete e quelle concernenti lo scioglimento dell’associazione denominata “Loggia P2”. L’art. 1 stabilisce i criteri per considerare un’associazione come segreta.
Nell’art. 4, la legge indica le misure da prendere nei confronti delle persone – impiegate nella funzione pubblica o nominate ad una carica pubblica – sospettate di appartenere ad un’associazione segreta.
Tale disposizione prevede egualmente che le Regioni adottino delle leggi regionali per i loro agenti e le persone nominate o designate da una Regione ad una carica pubblica.
Tali leggi regionali devono rispettare i princìpi fissati nella stessa disposizione.
Secondo le informazioni fornite alla Corte dalla ricorrente, tali leggi sono state adottate dalle Regioni della Toscana (legge n. 68 del 29 agosto 1983), dell’Emilia Romagna (legge n. 34 del 16 giugno 1984), della Liguria (legge n. 4 del 22 agosto 1984), del Piemonte (legge n. 65 del 24 dicembre 1984) e del Lazio (legge n. 23 del 28 febbraio 1985).
In base a due delle leggi regionali citate, le persone nominate o designate alle cariche pubbliche devono indicare le associazioni alle quali appartengono (art. 12 della legge della Toscana e art. 8 della legge del Lazio). Le altre leggi prevedono delle sanzioni da applicarsi alle persone nominate o designate se risulta che esse siano membri di un’associazione segreta (art. 7 della legge dell’Emilia Romagna, art. 8 della legge della Liguria, art. 8 della legge del Piemonte). La legge dell’Emilia Romagna contiene allo stesso tempo il divieto di nominare o designare persone affiliate ad associazioni segrete (art. 7 della legge dell’Emilia Romagna).
DIRITTO
I. SULL’ECCEZIONE PRELIMINARE DEL GOVERNO
11. Al momento dell’esame della ricevibilità del ricorso, il Governo ha sostenuto che la ricorrente non poteva pretendersi vittima delle violazioni denunciate (cfr. supra § 3).
L’art. 5 della legge del 1996 non arrecherebbe alcun pregiudizio all’esistenza della ricorrente né alla sua attività. La violazione denunciata riguarderebbe unicamente le persone fisiche e toccherebbe un membro dell’associazione solamente nella misura in cui egli si candidi ad una carica pubblica. Essa non potrebbe, pertanto, concernere un’associazione.
Nella sua decisione del 21 ottobre 1999 (cfr. supra § 6), la Corte ha accolto l’eccezione del Governo quanto alle doglianze relative agli artt. 8, 9 e 10 della Convenzione e le ha dichiarate irricevibili. D’altro canto, con riguardo alla doglianza concernente l’art. 11, la Corte ha ritenuto che “la verifica della condizione di vittima [era] nella specie strettamente legata all’esame della fondatezza della doglianza ed in particolare alla questione dell’esistenza di un’ingerenza nel diritto della ricorrente”.
Pertanto, la Corte tornerà più oltre su tale questione (cfr. infra § 16).
II. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ART. 11 DELLA CONVENZIONE
12. La ricorrente deduce che l’art. 5 della legge del 1996 ha violato il suo diritto alla libertà di associazione, garantito dall’art. 11 della Convenzione, il quale è così formulato:
“1. Ogni persona ha diritto alla libertà di riunione pacifica e alla libertà d’associazione, ivi compreso il diritto di partecipare alla costituzione di sindacati e di aderire ad essi per la difesa dei propri interessi.
2. L’esercizio di questi diritti non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale e alla protezione dei diritti e delle libertà altrui. Il presente articolo non osta a che restrizioni legittime siano imposte all’esercizio di tali diritti da parte dei membri delle forze armate, della polizia o dell’amministrazione dello Stato.”
Secondo la ricorrente, l’art. 5 della legge del 1996 mette i suoi membri davanti ad un’alternativa: rinunciare ad essere membri ovvero rinunciare ad una carica nell’ambito degli organi regionali. In tal modo, esso limita non soltanto la libertà di associazione di ciascun membro ma anche quella dell’associazione medesima.
A. Sull’esistenza di una ingerenza
13. Secondo la ricorrente, l’obbligo di dichiarare la non-appartenenza ad una loggia massonica costituisce una duplice ingerenza.
Da un lato, vi sarebbe un’ingerenza nel diritto di associarsi liberamente considerato come diritto di tutti i gruppi sociali di esistere e di agire senza subire – i gruppi sociali o i rispettivi associati – limitazioni ingiustificate da parte delle autorità. Il fatto di richiedere ai suoi associati una dichiarazione di non appartenenza alla Massoneria impedisce a questi ultimi di accedere ad una serie di cariche a livello regionale. Ebbene, questo obbligo costituisce un’ingerenza nell’attività della ricorrente, giacché esso o comporta una perdita di associati – allorché questi decidano di abbandonare l’associazione non per convinzione personale ma per un bisogno imposto dalla legge al fine di candidarsi alle cariche nell’ambito della Regione Marche -, o impone agli associati un sacrificio ingiustificato allorché questi ultimi decidano di rimanere membri dell’associazione ricorrente piuttosto che di uscirne.
In secondo luogo, l’obbligo in questione darebbe una immagine negativa dell’associazione. In effetti, l’art. 5 della legge del 1996 farebbe apparire la Massoneria come un’associazione criminale o, comunque, non conforme alla legislazione italiana.
Ebbene, non soltanto la Massoneria è stata riconosciuta come un’associazione legittima dalle giurisdizioni italiane e da una commissione di inchiesta parlamentare, ma soprattutto essa beneficia delle garanzie previste dagli artt. 2 e 18 della Costituzione.
La ricorrente deduce da questi fatti che essa ha subìto direttamente gli effetti pregiudizievoli dell’art. 5 della legge del 1996.
14. Dal canto suo, il Governo contesta che vi sia un’ingerenza. A suo avviso, il diritto alla libertà di associazione può essere invocato dall’individuo che intende associarsi ma non dall’associazione la quale, in se stessa, rappresenta il risultato dell’esercizio di tale libertà. D’altra parte, anche a supporre che le garanzie dell’art. 11 si applichino alle
associazioni, le incompatibilità che toccano uno dei loro membri in ragione dell’appartennza ad un’associazione non possono essere contestate dall’associazione medesima, giacché esse non la riguardano.
15. La Corte ricorda di aver già ritenuto applicabile l’art. 11 a delle associazioni, quali i partiti politici (cfr. le sentenze Partito comunista unificato della Turchia ed altri c. Turchia, in Raccolta 1998-I, e Partito socialista ed altri c. Turchia, in Raccolta 1998-III). Essa ha indicato, in termini generali, che “un’associazione, sia essa un partito
politico, non si trova sottratta all’operatività della Convenzione per il sol fatto che le sue attività passano agli occhi delle autorità nazionali come rivolte ad attentare alle strutture costituzionali di uno Stato e richiedono misure restrittive” (sentenza Partito comunista unificato della Turchia ed altri, cit., ibidem, p. 17, § 27). La Corte è dell’avviso che questo ragionamento valga ancor di più per un’associazione che, come la ricorrente, non è sospettata di attentare alle strutture costituzionali. Inoltre ed in particolar modo, la Corte riconosce che la misura de qua agitur può arrecare pregiudizio alla ricorrente – come indicato da quest’ultima -, determinando ad esempio una perdita di membri e di prestigio.
16. La Corte, pertanto, arriva alla conclusione che vi è un’ingerenza. Ne consegue che la ricorrente può pretendersi vittima della violazione dedotta e che, quindi, l’eccezione del Governo deve essere rigettata.
Commento [C1]:
B. Sulla giustificazione dell’ingerenza
1. Con riferimento alla prima frase del comma 2 dell’art. 11
17. Una tale ingerenza vìola l’art. 11, salvo che essa sia “prevista dalla legge”, diretta ad uno o più degli scopi legittimi indicati nel comma 2 e “necessaria in una società democratica” per il conseguimento degli stessi.
a) “Prevista dalla legge”
18. La ricorrente non contesta che l’ingerenza sia “prevista dalla legge”, atteso che la misura in questione discende da una legge regionale (cfr. supra §§ 16 e 17).
b) Scopo legittimo
19. Il Governo non indica al perseguimento di quale scopo fra quelli indicati nel comma 2 sia rivolta la misura contestata. Tuttavia, dopo aver affermato che il sistema di attribuzione delle cariche pubbliche abbisogna di credibilità e necessita della fiducia nelle persone scelte, il Governo sottolinea il dubbio dell’opinione pubblica quanto al fatto che certe scelte possano essere state condizionate dall’appartenenza alla Massoneria. Tale dubbio causerebbe un pregiudizio che deve assolutamente essere evitato e ciò avendo in mente il ruolo che alcuni membri della Massoneria hanno avuto nella vita democratica dell’Italia, ruolo che ha contribuito a deteriorare l’immagine della vita pubblica italiana, come hanno dimostrato le inchieste del Parlamento e della magistratura.
20. Secondo il ricorrente, l’ingerenza non persegue alcuno degli scopi legittimi indicati dalla prima frase del comma 2. In particolare, le giustificazioni addotte dal Governo non potrebbero essere la difesa dell’ordine o la prevenzione del crimine, poiché la ricorrente non è un’associazione segreta o criminale contro la quale si renda necessaria l’adozione di misure di interdizione a scopo preventivo o repressivo.
21. La Corte nota che, secondo il Governo, l’art. 5 della legge del 1996 è stato introdotto per “rassicurare” l’opinione pubblica in un momento in cui era fortemente in questione il ruolo che certi membri della Massoneria avevano avuto nella vita del Paese.
La Corte ammette, dunque, che l’ingerenza contestata tende alla protezione della sicurezza nazionale ed alla difesa dell’ordine.
c) Necessità in una società democratica
i. Tesi delle parti
22. La ricorrente afferma che la limitazione della libertà di associazione non è ragionevole e proporzionata, con la conseguenza che essa non può ritenersi necessaria in una società democratica. Ciò sarebbe provato dal fatto che la Regione Marche è la sola Regione ad avere dato applicazione alla delega prevista dall’art. 4 della legge n. 17 del 1982 concernente l’interdizione dei membri delle associazioni segrete (cfr. supra § 10) attraverso l’introduzione di un obbligo di dichiarare la non-appartenenza alla Massoneria.
Tanto più che un siffatto obbligo non esiste neppure a livello dell’amministrazione centrale, di tal ché nulla impedisce che un Presidente del Consiglio dei Ministri, un Ministro, un alto funzionario e lo stesso Presidente della Repubblica siano massoni.
D’altro canto, la ricorrente ricorda che, secondo la giurisprudenza della Corte, un giudice può appartenere alla Massoneria senza che la sua imparzialità oggettiva sia messa in dubbio (cfr. il caso Kiiskinen c. Finlandia, (dec.), n. 26323/95, CEDH 1999-V). Inoltre, il dibattito che ha avuto luogo nell’ambito del Consiglio regionale a seguito della legge del 1996 avrebbe dato la misura del carattere irragionevole della disposizione contestata.
Infine, la ricorrente ricorda che essa è un’associazione di diritto privato sin dal 1805, che ha sempre agito legalmente e che, sebbene vi sia in Italia un’attività di “delegittimazione” della Massoneria, essa rimane tutt’oggi un’associazione che persegue un fine ideale, garantita dall’art. 18 della Costituzione, che non deve essere confusa con un’associazione
segreta o criminale. Infatti, anche se all’interno della Massoneria vi siano state attività deviate, non è men vero che tali attività non hanno riguardato la ricorrente e che esse non sono sufficienti a demonizzare la Massoneria nel suo insieme.
23. Il Governo fa rilevare che non vi è alcuna restrizione alla libertà di associazione ma solamente un’ipotesi di impedimento. D’altro canto, la disposizione contestata è stata introdotta da una legge concernente l’organizzazione della Regione e, dunque, rientra nelle competenze che l’art. 117 della Costituzione ha devoluto alle Regioni.
ii. Decisione della Corte
24. La Corte ha esaminato la misura contestata alla luce dell’insieme del fascicolo, perdeterminare in particolare se essa possa dirsi proporzionata allo scopo legittimo perseguito.
25. La proporzionalità richiede un bilanciamento tra gli imperativi delle esigenze enumerate dall’art. 11 comma 2 della Convenzione e quelli del libero esercizio della libertà di associazione. La ricerca di un giusto equilibrio non deve condurre a scoraggiare gli individui dall’esercizio del loro diritto di associazione in tali circostanze, per paura di vedere scartata la propria candidatura.
26. Certo, il numero di membri, effettivi o potenziali, dell’associazione ricorrente che possano essere messi di fronte al dilemma di scegliere tra l’appartenenza alla Massoneria e la partecipazione ad una competizione per le cariche di cui all’art. 5 della legge 1996 non sembra essere significativo in relazione al numero totale dei membri dell’associazione ricorrente. Di conseguenza, ne risulta egualmente ridotto il pregiudizio che la ricorrente può subire. La Corte ritiene, tuttavia, che la libertà di associazione riveste una tale importanza da non potere subire alcuna limitazione, sia pure per una persona candidata ad una carica pubblica, nella misura in cui l’interessato non commetta egli stesso, in ragione della sua appartenenza all’associazione, alcun atto irreprensibile.
D’altra parte, è evidente che l’associazione subisce il contraccolpo delle decisioni dei suoi membri. In conclusione, l’interdizione contestata, per quanto minima possa essere con riguardo alla ricorrente, non appare “necessaria in una società democratica”.
2. Con riferimento alla seconda frase del comma 2 dell’art. 11
27. Essendo giunta a questa conclusione, la Corte deve verificare se l’interdizione contestata possa giustificarsi alla stregua dell’ultima frase dell’art. 11 comma 2, nella misura in cui essa autorizza gli Stati ad imporre ai membri di certe categorie, ivi inclusa “l’amministrazione dello Stato”, delle “restrizioni legittime” all’esercizio del diritto alla libertà di associazione.
28. La ricorrente sostiene che l’ingerenza non può giustificarsi alla stregua dell’ultima frase della disposizione in parola, giacché detta ingerenza non è “legittima”. L’art. 5
9 sarebbe contrario agli artt. 2, 3 e 18 della Costituzione e violerebbe l’art. 117 della Costituzione medesima, oltrepassando i limiti prefissati dalla legge quadro n. 17 del 1982 la quale, nel suo art. 4, prevede la possibilità di stabilire delle regole interdittive con riferimento ai funzionari membri di associazioni segrete, e, infine, sarebbe contraria agli artt. 8, 11 e 14 della Convenzione, la quale fa parte integrante dell’ordinamento italiano.
Inoltre, la ricorrente contesta che le cariche oggetto delle nomine o designazioni per le quali è richiesta la dichiarazione prevista dall’art. 5 facciano parte della “amministrazione dello Stato” propriamente detta. Si tratterebbe, infatti, di cariche rilevanti in diverse categorie, ivi compresi gli ordini professionali e le associazioni operanti in ambiti ad essi relativi. Le cariche riguardano egualmente associazioni di diritto privato o comunque aventi un ampio margine di autonomia (università, associazioni ricreative, culturali, sportive, ecc.) rispetto agli organi della Regione.
29. Dal canto suo, il Governo ritiene che l’espressione “amministrazione dello Stato” deve essere intesa in un’ampia accezione, riferendosi all’amministrazione nel suo insieme.
30. La Corte ricorda che il termine “legittime” che figura nella seconda frase dell’art.
11 fa riferimento esattamente alla stessa nozione di legittimità cui la Convenzione rinvia altrove, in termini identici o simili, in particolare con l’espressione “prevista dalla legge” che figura nel secondo paragrafo degli artt. 9, 10 e 11. La nozione di legittimità utilizzata nella Convenzione implica, in aggiunta alla conformità con il diritto interno, delle esigenze qualitative nel diritto interno quali quelle della prevedibilità e, in termini generali, dell’assenza di arbitrarietà (cfr. la sentenza Rekvényi c. Ungheria (Grande Camera), n. 25390/94, § 59, CEDH 1999-III).
Nella misura in cui la ricorrente critica il fondamento della misura contestata nel diritto interno, la Corte ricorda che spetta in primo luogo alle autorità nazionali di interpretare ed applicare il diritto interno, in particolare quando si devono chiarire dei punti controversi (cfr. sentenza S.W. c. Regno Unito del 22 novembre 1995, serie A n. 335-B, p. 42, § 36). Nel caso di specie, tuttavia, la ricorrente non aveva la possibilità di impugnare la costituzionalità della disposizione contestata, ciò che non è contraddetto dal Governo. Di conseguenza, la Corte conclude che la situazione giuridica era sufficientemente chiara per permettere alla ricorrente di regolare la propria condotta e che, pertanto, la condizione della prevedibilità deve ritenersi rispettata. La restrizione contestata è, dunque, “legittima” ai sensi dell’art. 11 comma 2.
31. Quanto alla questione concernente la riconducibilità delle cariche di cui all’art. 5 della legge del 1996 nell’ambito della “amministrazione dello Stato”, la Corte nota che le cariche indicate negli annessi A e B alla legge del 1996 non fanno parte dell’organigramma regionale ma rientrano in due altre categorie: quella delle organizzazioni regionali e quella relativa alle nomine e alle designazioni di competenza del Consiglio regionale. Ebbene, la “nozione di amministrazione dello Stato richiede un’interpretazione restrittiva, tenendo conto della carica ricoperta dal funzionario
interessato” (cfr. sentenza Vogt del 26 settembre 1995, § 67). La Corte ricorda che essa si è astenuta, nella sentenza Vogt, dal risolvere la questione relativa alla riconducibilità di un insegnante – allora funzionario titolare – nel quadro dell’amministrazione dello Stato (ibidem, § 68). Nel presente caso, essa nota sulla base degli elementi a disposizione che il legame tra le cariche indicate negli annessi A e B della legge del 1996 e la Regione Marche è senza dubbio meno stretto del legame che esisteva tra la Sig.ra Vogt, insegnante titolare, ed il suo datore di lavoro.
32. Per questo motivo, l’ingerenza contestata non trova più la sua giustificazione nella seconda frase dello stesso paragrafo.
33. In conclusione, vi è stata violazione dell’art. 11 della Convenzione.
III. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 13 E 14 DELLA
CONVENZIONE COMBINATI CON L’ART. 11 DELLA CONVENZIONE
34. La ricorrente lamenta del pari una violazione degli artt. 13 e 14 della Convenzione combinati con l’art. 11. Poiché tali doglianze vertono sugli stessi fatti esaminati con riferimento all’art. 11, la Corte non ritiene necessario esaminarle separatamente.
IV. SULL’APPLICAZIONE DELL’ART. 41 DELLA CONVENZIONE
35. Ai sensi dell’art. 41 della Convenzione, “Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.”
A. Danni
36. La ricorrente domanda 125.080 euro a titolo di pregiudizio morale, arrivando a tale importo moltiplicando la somma simbolica di dieci euro per il numero complessivo dei propri membri (12.508).
37. Il Governo è dell’avviso che nel caso di specie è sufficiente una constatazione di violazione. Esso aggiunge che, secondo la giurisprudenza della Corte, le associazioni non hanno diritto ad un risarcimento per il danno morale.
38. La Corte ricorda che secondo la sua giurisprudenza gli enti morali, ivi incluse le società commerciali, possono subire un danno non materiale e richiederne la riparazione pecuniaria (cfr. Comingersoll S.A. c. Portogallo (Grande Camera), n. 35382/97, CEDH 2000-IV, §§ 31-37). Tuttavia, nel caso di specie, tenuto conto delle circostanze della controversia, la Corte ritiene che la constatazione della violazione dell’art. 11 costituisca una riparazione sufficiente del danno dedotto.
B. Spese e costi
39. La ricorrente richiede il rimborso della somma di 38.291.408 di Lire italiane per le spese sostenute dinanzi agli organi della Convenzione.
40. Il Governo si rimette alla saggezza della Corte.
41. Decidendo secondo equità, la Corte accorda alla ricorrente 10.000.000 di Lire italiane.
11
C. Interessi moratori
42. Secondo le informazioni a disposizione della Corte, il tasso legale di interesse applicabile in Italia alla data di adozione della presente sentenza è del 3,5% l’anno.
PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE ALL’UNANIMITÀ,
1. Rigetta l’eccezione preliminare del Governo;
2. Dichiara che vi è stata violazione dell’art. 11 della Convenzione;
3. Dichiara che non è necessario esaminare il caso con riferimento agli artt. 13 e 14 della Convenzione combinati con l’art. 11 della Convenzione;
4. Dichiara che la constatazione della violazione costituisce di per sé un’equa soddisfazione sufficiente per il danno subìto dalla ricorrente;
5. Dichiara
a) che lo Stato convenuto deve versare alla ricorrente, entro tre mesi dal giorno in cui la sentenza sarà divenuta definitiva conformemente all’art. 44 comma 2 dellaConvenzione, 10.000.000 (dieci milioni) di Lire italiane per spese e costi,
b) che tale somma dovrà essere maggiorata di un interesse semplice del 3,5% annuo a partire dalla scadenza del detto termine e fino al pagamento;
6. Rigetta per il resto la domanda di equa soddisfazione.
Fatto in francese e comunicato per iscritto il 2 agosto 2001 in applicazione dell’art. 77 commi 2 e 3 del Regolamento.

Vincent BERGER Georg RESS
Cancelliere Presidente